Le pensioni d’oro: una storia tutta italiana

Le tante stranezze di questo nostro Paese, talvolta abnormi per le loro caratteristiche, stimolano riflessioni e giudizi che si configurano come verità, note a tutti sul piano operativo e che sono subite con rassegnazione, ma con legittima disapprovazione non viziata da pregiudizi ideologici e politici.

Le storture, in molti delicati settori dello Stato, oltre che a incidere negativamente sull’immaginario collettivo, creano spazi di riflessione purtroppo perimetrati da limiti umilianti sul legittimo confronto di idee e posizioni sulle materie del contrasto. Non è possibile a nessuno, né a chi ha capacità di esercizi demagogici e dialettici, dare risposte credibili ed esaustive che possano giustificare certe difformità di trattamento sul piano economico e sociale che, se sono leciti e conformi alle vigenti norme, lo dovrebbero essere entro certi limiti tollerabili e non debordanti nell’eccesso.

Fra le tante stranezze che affliggono il Paese, quella che è più grave e che ha carattere endemico, è l’instabilità del quadro politico che, da vent’anni, si configura come la peggiore del dopoguerra e con l’aggravante di essere, ora, la più inadeguata a fronteggiare la grave crisi che ha avuto, e continua ad avere, effetti devastanti. Non entrando nel merito di tante altre stranezze, una delle più eclatanti è quella più recente rivelata dal sottosegretario al Welfare, Carlo Dell’Arringa, e che attiene all’esborso annuale di tredici miliardi di euro, che l’Inps fa per “pensioni d’oro” a centomila pensionati.

Nulla quaestio sulla legittimità e sulla conformità alle vigenti norme che regolano il settore pensionistico per i centomila soggetti; ma è facile riuscire a metabolizzare una simile notizia pur riconoscendo che gli emolumenti prima, il Tfr e la elargizione di macro-pensioni dopo, incardinate al retributivo e non al contributivo, sono legittimi e sacrosanti perché rispettano: meriti, capacità, professionalità e livello manageriale di altissimo profilo.

Ciò premesso, per rispetto alla legalità e ai diritti acquisiti di ogni cittadino, di qualunque ceto, non è concepibile, se non inutile, anzi temerario, mettere in atto attacchi mirati ai beneficiari di questi tredici miliardi. Anche se, obtorto collo, l’accettabilità di questa consolidata situazione è fuori discussione. Al riguardo, è difficilmente sostenibile l’azione intrapresa dalla deputata Giorgia Merloni per la modifica, a posteriori, con passaggio dal remunerativo al contributivo. Anche il tentativo fatto dal Governo Monti, per un rispetto di equità e di coesione sociale, di mettere un contributo di solidarietà alle pensioni d’oro, è stato bocciato dalla Corte Costituzionale per violazione del principio di parità di tutti i cittadini.

Sic stantibus rebus, per modificare questo assurdo ed aberrante stato di cose, l’unica via praticabile, senza forzature e prevaricazioni che possono urtare la suscettibilità di chi usufruisce, da anni, di questi intoccabili privilegi, è quella di regolamentare, con legge ad hoc, le remunerazioni dei manager entro un tetto massimo stabilito per gradualità di merito e importanza e dall’incarico conferito.

Questa soluzione non va guardata come azione di appiattimento frustrante per chi, in prospettiva, la potrebbe subire; ma come necessario sbarramento alle distorsioni ed ai privilegi che vanno ad esasperare le tensioni sociali. Pensare in termini di ricerca di più equità sul piano sociale, non significa avere propensione per certe ideologie politiche già superate in tutto il mondo, ma mettere in atto certi comportamenti che accorciano le distanze fra i cittadini e contribuiscono ad armonizzare lo stato sociale.