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Il Falstaff latino di Leo Gullotta in “Le allegre comari di Windsor”

di Roberto Privitera

Un certo tipo di teatro consolida la sua immortalità. Allo Stabile di Catania prosegue il successo del capolavoro di Shakespeare, portato in scena dall’allestimento del Teatro Eliseo di Roma e con un sontuoso Leo Gullotta protagonista.

Fu davvero costretto il Bardo a riesumare Sir John Falstaff e metterlo al centro delle allegre comari, dopo averlo fatto morire nell’ “Enrico V”? Che si sta stato un capriccio o meno della regina Elisabetta I, e ci piace pensarlo, si può a buon diritto pensare che grazie ad un vizio reale il teatro gode oggi di uno dei suoi massimi capolavori alla voce “commedia”.

Quanto colore, quanta vivacità. Il palcoscenico dell’opera voluta dal regista Grossi si riempie sin dall’inizio di personaggi. E’ un via vai incessante di situazioni grottesche, alle quali danno vita anime stereotipate di una società secolare ma invero senza tempo. Il guascone, il servo sciocco, il furfante, l’ingenuo innamorato, il marito geloso, lo scaltro, la giovane sognatrice ribelle, le comari. Queste ultime sono ostacolate dal diventare il centro di tutto, causa l’imponente figura di Falstaff.

Leo Gullotta sradica il più classico dei personaggi grotteschi della commedia latina e se lo cuce addosso, dall’inizio alla fine. Si rivedono i cardini di Plauto e Terenzio nella parlata rauca, nell’andatura caracollante. Nei modi di impartire ordini e nel goffo tentativo di apparire forte, deciso, potente ed autoritario. L’equivoco, principale fonte per tutte le comicità da tempo immemore, viene cavalcato di volta in volta senza mai incappare in margini d’errore.

Il canovaccio del duro spaccone che finisce da tenero agnellino martoriato a schernito da tutti conferma con ogni probabilità di essere immortale. Immortale perché è vita, è vissuto, rintracciabile da ciascuno che occupi la poltrona di un teatro e lo riconduca alle proprie esperienze. Nulla della formula adoperata intacca la correlazione con il quotidiano, nel pieno rispetto di ciò che tutti i capolavori sanno fare: essere attuali.  

Congeniata senza fasi di stanca, nel concepire la messinscena risulta intelligente la scelta di snellire il testo e ridurre i cinque tradizionali atti nella forma più agevole “due più intervallo”. Si aprono finestre su un’ambiente cortigiano che vive di lazzi, diletto, finti tradimenti, grotteschi onori da difendere. Il tutto sotto lo sguardo severamente compiaciuto di una gigantesca regina Elisabetta. Il merito di un patrimonio simile è soprattutto suo.

Redazione

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