“Devi tornare a lavoro”: sta arrivando la lettera di impiego a tutti i pensionati | I calcoli erano sbagliati

Un caso che sicuramente farà discutere per tanto tempo.
Il sistema pensionistico si basa su un meccanismo contributivo: ciò significa che l’importo della pensione dipende da quanto e per quanto tempo si è versato durante la carriera lavorativa. Ogni lavoratore, dipendente o autonomo, versa contributi previdenziali a un ente di riferimento – l’INPS per la maggior parte dei casi – e tali versamenti vanno a costituire il “montante contributivo” individuale. Questo montante, al momento del pensionamento, viene trasformato in rendita tramite un coefficiente stabilito dalla legge.
Per accedere alla pensione di vecchiaia, attualmente sono richiesti almeno 67 anni di età e 20 anni di contributi, salvo specifiche eccezioni per alcune categorie. Esiste anche la pensione anticipata, raggiungibile con 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini (41 anni e 10 mesi per le donne), a prescindere dall’età anagrafica. Altre forme di flessibilità, come “Quota 103” o “Opzione Donna”, permettono uscite anticipate, ma con penalizzazioni sull’assegno.
Il sistema italiano è pubblico e a ripartizione: i contributi versati oggi finanziano le pensioni attuali. Questo rende il sistema sensibile ai cambiamenti demografici, come l’invecchiamento della popolazione e il calo delle nascite, fattori che mettono sotto pressione la sostenibilità economica del modello.
Per compensare l’eventuale riduzione dell’importo pensionistico, molti lavoratori scelgono di aderire a forme di previdenza complementare. Si tratta di fondi pensione integrativi, su base volontaria, che permettono di accumulare un ulteriore capitale da utilizzare al momento del pensionamento.
Un prepensionamento breve, ma necessario
Nicola Ucci, medico di base oggi 61enne, ha deciso due anni fa di interrompere la sua attività, pur sapendo che gli mancavano ancora nove anni alla pensione. Dopo anni di lavoro a Cento, in provincia di Ferrara, con un carico di 1.800 assistiti, ben oltre il limite consigliato, è arrivato al punto di non ritorno: il burnout. Non si è trattato di un caso isolato tra i giovani medici, ma di una scelta dolorosa di un professionista esperto, stremato dalla mole di lavoro aumentata vertiginosamente con l’arrivo del Covid nel 2020.
Il dottor Ucci, che aveva iniziato la carriera in pronto soccorso, era passato alla medicina generale seguendo l’idea – poi smentita dai fatti – che fosse un lavoro più leggero e ben retribuito. Al contrario, ha scoperto un’attività totalizzante, senza orari e con una pressione crescente, tra visite, burocrazia e responsabilità continue. Un’esperienza intensa, ma insostenibile sul lungo periodo, che lo ha portato a un vero e proprio prepensionamento forzato, durato però poco.

Una nuova vita, tra turni e libertà: ora è tornato a lavorare
Dopo essersi ritirato, Ucci ha deciso di rientrare nel sistema sanitario come medico a tempo determinato, svolgendo turni nei punti di primo intervento dell’Ausl di Bologna. Ora lavora 38 ore settimanali, suddivise in pochi turni lunghi, che gli lasciano 3-4 giorni liberi a settimana. Un impegno pesante ma delimitato, che gli permette finalmente di separare il lavoro dalla vita privata.
Ammette che i suoi ex pazienti gli mancano, e che lui manca a loro. Ma sottolinea anche come, oggi, fare il medico di base sia diventato un mestiere estenuante, spesso incompatibile con una qualità di vita accettabile.