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Cinema: una barca attraverso il tempo

Anche se il film è uscito qualche settimana fa, alcune rassegne cittadine lo stanno riproponendo; inoltre, come vuole una ormai importante consuetudine per quel che riguarda i lavori di Pasquale Scimeca, è stato già mostrato in diverse scuole, e probabilmente tale tournée proseguirà. Parliamo di Malavoglia, opera reduce dai festival di tutto il mondo (Venezia, Toronto, Londra, Istanbul, Madrid…) che il regista siciliano ha liberamente tratto dal fondamentale romanzo di Giovanni Verga, al quale si era già ispirato, in quel caso traendo spunto da una novella e con identico spirito di attualizzazione, per Rosso Malpelo (2007). Insieme allo stesso protagonista di allora, ovvero il giovane Antonio Ciurca (che qui interpreta ’Ntoni), e al verace, e soddisfatto dell’esperienza, Giuseppe Firullo (nella vita autentico pescatore di Sampieri, frazione di Scicli – “Non ho più il patentino, pesco per diletto”, dichiara – e nella finzione titolare del ruolo del nonno), al fedelissimo Vincenzo Albanese (al quale tocca sempre la parte più ingrata) e a padre Cosimo Scordato, l’autore ha tenuto nel pomeriggio di giovedì 28 aprile la conferenza stampa di presentazione del lungometraggio in questione in un luogo particolarmente evocativo: l’antica e ritrovata chiesa di S. Giovanni Decollato di Palermo, che fra l’altro fu set per Visconti ne Il Gattopardo. E proprio Visconti era partito dal medesimo scritto verghiano per realizzare il suo La terra trema (1948), precedente che in un certo senso intimoriva Scimeca (il quale, con la sua Arbash, ha ancora una volta co-prodotto e – più che distribuito – dato visibilità “didattica” a questa sua più recente fatica); ma la famiglia al centro della sua versione è integrata in uno schietto contesto di povertà odierna (a suggellare comunque la modernità, se non l’eternità dei capolavori letterari), fra difficoltà economiche (con la famosa barca carica di lupini perduta in mare), amori, disperazione e immigrazione. E un’evoluzione inattesa (e opportunamente personalizzata) degli eventi.

Scimeca, in questo adattamento de I Malavoglia è caduto l’articolo determinativo. È casuale?
«No, non esiste la casualità. Ci sono due motivi: il primo era distinguere il film dal grande romanzo, il secondo perché senza la “i” il titolo si trasforma in quel termine, malavoglia, riferito, spesso a sproposito, a chi vive al sud, che nella credenza comune non ha voglia di lavorare. In realtà anche Verga, con estrema ironia, aveva deciso di battezzare così la famiglia di cui si racconta nel libro, che al contrario si ammazza di fatica, lavorando notte e giorno. Un modo dispregiativo che diventa paradossalmente bello, se vogliamo, per indicare chi vive nel Meridione.»

Il film arriva in un momento storico particolare, fra grossi fermenti e accesi dibattiti per quel che riguarda l’immigrazione e gli sbarchi. Anche politicamente, sono tempi grami…
«Sono tempi duri, perché quello che stanno cercando di fare è veramente meschino. Parlo della classe dirigente, che s’inventa invasioni barbariche che non esistono. Le migrazioni sono una costante di tutte le civiltà, di tutti i popoli, di tutti i tempi. Noi stessi siciliani all’inizio del secolo scorso siamo partiti per contribuire alla costruzione della ricchezza in tutto il mondo: in Europa, nelle Americhe, ma persino in Tunisia! In pochi lo sanno, quasi 100.000 siciliani ci sono andati. Gli Stati Uniti, vale a dire la nazione oggi più importante, è stata fatta da migranti: italiani, irlandesi, ispanici, africani… Il loro presidente attuale è un nero, non dimentichiamocelo. Noi ci troviamo in prossimità – appena 300 chilometri – di un Sud, l’Africa, in cui ci sono serie difficoltà, e di conseguenza le persone vengono da noi in cerca di una nuova speranza di vita. È naturale che ciò avvenga! Cosa vengono a fare qui i tunisini e i marocchini? Certo, qualcuno delinque, ma anche alcuni italiani delinquono, e non per questo si pensa di cacciarli tutti. Gli immigrati vengono a cercare un lavoro, e spesso lo trovano fra quelli che noi non vogliamo più fare. Nelle serre, dove c’è l’attività agricola più avanzata in Europa, chi ci lavora? Nella stragrande maggioranza proprio gli africani. Quindi, di che parliamo? Non c’è un’emergenza, è una realtà! Bisogna accettarla. Non puoi costruire i muri sul mare. Non si possono fermare questi flussi spontanei, che c’erano pure nel passato. E continuerà a succedere fintantoché ci saranno popolazioni che stanno male.»

L’appassionata spiegazione del regista in difesa di un fenomeno così indegnamente demonizzato sminuisce un po’ la domanda ironica (ma fortunatamente gratificata da una risposta seria e circostanziata) rivolta all’attore di tutte le sue pellicole.

Albanese, secondo lei Scimeca le affiderà mai un personaggio positivo?
«Personalmente, non mi interessa tanto che sia positivo o negativo (quello non è il mio obbiettivo), ma che riesca credibile all’interno del contesto. Deve essere in qualche modo “positiva” l’interpretazione: purtroppo, il cinema ha bisogno anche di ruoli negativi. Non è una mia aspirazione recitare un “buono”, anzi un attore ha necessità di rivestire ruoli quanto più lontani possibile dal proprio carattere, di cambiare. Fare il cattivo per me è una sofferenza, ma è pure una sfida: quando girammo Placido Rizzotto (dove interpretava Luciano Liggio, n.d.r), alla fine di ogni scena mi sentivo quasi male! Positivo mi auguro sempre che sia l’effetto finale, complessivo: uscire dalla sala con delle domande in testa, delle idee nuove.»

Massimo Arciresi
[fotografie: Massimo Arciresi]
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