Mentre la Sicilia affonda, due palermitani sulla plancia di comando dello Stato

Se Sergio Mattarella eviterà gli agguati sulla strada del Quirinale, domani Palermo avrà le due maggiori cariche istituzionali previste dalla nostra Costituzione: Presidenza della Repubblica, appunto, e Presidenza del Senato con Pietro Grasso: tutto ciò mentre la Sicilia affonda alle prese con un buco di bilancio  non ancora realmente quantificato e con un governo regionale che ha realizzato mezza rivoluzione (la parte distruttiva), senza riuscire a edificare nulla di nuovo. E’ una coincidenza che, nel momento più difficile della storia dell’Autonomia siciliana, un siciliano venga chiamato al vertice dello Stato? Solo parzialmente: la coincidenza sta nel fatto che Mattarella corrisponde perfettamente al profilo di cui Renzi aveva bisogno in questo momento. Persona per bene, che non ama gli eccessi e le parole superflue, con un solido profilo giuridico (non a caso è arrivato alla Corte Costituzionale), conoscitore dei meccanismi di governo (già vice Presidente del Consiglio e più volte ministro) da quasi ventanni defilato rispetto all’agone politico, con due caratteristiche che lo rendono ben accetto alla minoranza democratica che sognava di far rivivere a Renzi (questa volta dall’altro lato della barricata) i giorni bui dell’agguato a Prodi: il sacrificio del fratello Piersanti, ucciso dalla mafia nel 1980 e, soprattutto, le dimissioni da ministro della Pubblica istruzione quando, nel 1990, l’allora Presidente del Consiglio Andreotti pose la fiducia sulla legge Mammì che regalava le concessioni all’impero televisivo di Berlusconi. Insomma per affossare il patto del Nazareno, Mattarella è perfetto. Ma qui finiscono le coincidenze ed entra in gioco Matteo Renzi che magari come Presidente del Consiglio sarà un bischero, ma come tattico ha dimostrato di raggiungere le vette dei migliori (o peggiori?) democristiani. La scelta di Mattarella è un colpo di genio: da Presidente della Repubblica confermerà il suo ruolo di garante della Costituzione, evitando le forzature dei suoi predecessori (Re Giorgio in particolare); non farà ombra al giovane Matteo e quando proprio si troverà davanti a qualcosa di indigeribile da firmare, con la massima discrezione farà pervenire a Renzi anche la soluzione del problema. Così, in un colpo solo, il lider maximo si è garantito le mani libere per il prossimo futuro, ha zittito l’opposizione interna ed ha ridimensionato il ruolo di Berlusconi che, o beve l’amaro calice, dirottando anche i suoi voti su Mattarella (che certo non gli è simpatico) oppure apparirà il perdente della partita. Una volta messo in crisi il patto del Nazareno, infatti, se Berlusconi va sull’Aventino, i dissidenti della sinistra PD faranno passare le riforme istituzionali,  se invece fa buon viso a cattivo gioco, le riforme passano lo stesso: cambiando l’ordine degli addendi, la somma dà sempre Renzi trionfatore e gli altri a guardare. Tutto perfetto dunque? Sì, con una sola postilla: la quota 505, necessaria per eleggere il Presidente della Repubblica alla quarta votazione, può diventare una montagna insormontabile da scalare, se fra i grandi elettori dovessero prevalere ricatti e veti incrociati di una legislatura nata male. Ma a questo punto Matteo da Firenze avrebbe ancora l’arma finale: elezioni anticipate presentandosi agli italiani come il solo che può liberarli dal pantano della politica.

P.S.: qualche dietrologo si spinge a sostenere che Renzi vuole Mattarella anche per far sotterrare ad un siciliano lo Statuto Autonomistico: tesi suggestiva e purtroppo credibile, visti i continui scippi operati ai danni del nostro già disastrato bilancio.